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PERCHÉ LEONARDO?

Un accenno appare senz’altro doveroso alla prima sortita di questo periodico che giusto su “Leonardo” ha fatto cadere la scelta per la sua testata.

Dicendo “testata” non è improprio pensare anche al significato di “colpo di testa” con tutte le implicazioni che tale espressione contiene in sé nell’ambito dell’aleatorietà, qual è quella di pubblicare “il Leonardo”.

Di certo, un’impresa che sarebbe vano affrontare tralasciando di ponderare il rischio derivante dal proposito di aprire uno spazio particolare all’elaborazione del solo rebus nel campo generico, e non meno aleatorio, dei mensili di Enimmistica classica.

Con ciò, ponendo subito in primo piano le difficoltà e le incertezze potenziali di un’iniziativa del genere, riteniamo di formulare il più sincero e convinto augurio a “il Leonardo” e all’audacia dei redattori.
Ché poi, se oggi “audacia” potrebbe sembrare il termine adatto all’animo dei promotori di siffatta Rivista, non è detto, anzi, è certo che nel domani essa si sarà dimostrata un atto dovuto, più che necessario per la definizione di un’area di vitalità e libertà creative di grande respiro).

Perché, dunque, “Leonardo”? perché nel presente tecnologico del rebus ancora ci affascina l’umanistico, ma quanto lontano, riferimento al Genio vinciano?

Anzitutto per un motivo di nobile discendenza: insomma, la soddisfazione di poter vantare ab antiquo quella Mente che la storia dell’Arte colloca ai vertici delle possibilità intellettive. Come dire la sicurezza di porre all’eventuale sorrisetto ironico e sprezzante dei non addetti ai lavori la statura eminente di un Personaggio d’indiscutibile valore; un modo semplice di replicare: se così Lui, perché non anche noi? Il che – oltre ad escludere di essere scambiati per bislacchi parvenus – costituisce il nostro retroterra da cui è più agevole e giustificato muovere passi in avanti, e senza tracce d’infantilismo.

A giusta ragione, giacché è assai di conforto che un talento quale Leonardo si sia “divertito” nel dedicarsi a quel gioco, antico quanto il parlare umano, consistente nel trovare “cose” all’interno delle catene discorsive, e con tanta acutezza di studio da costruire ex novo catene fondate unicamente su “cose”. Non è questo, dunque un giochetto da nulla, se esso ha saputo captare l’attenzione di così vasto Ingegno. E non è poco, anzi, moltissimo per noi. Donde nessuno potrà impedirci di contemplare i “reperti” rebussistici di Leonardo quali vestigia di una “civiltà” ludica non meno prestigiose – fatte però, le debite proporzioni – di quelle della civiltà romana.

Poiché che altro sono quei leonardeschi “resti”: sol la fé mi fa..., s’ella mal va..., che posso fare se la...; i’ arò caro... – che altro se non gloriose rovine di costruzioni fraseologiche dirute dal Tempo che venne meno al nostro Genio per completarle?

Talché, aggirarsi fra quelle “rovine” non è un po’ come respirare l’aura di perdute grandezze che avvertirono gl’intelletti stranieri dinnanzi ai ruderi romani della Roma secentesca?
Un seconda ragione del fascino che emana l’ascendenza leonardesca si basa, a nostro parere, sull’autonomia di realizzazione dell’operato rebussistico di quell’Ingegno.

E sì: quale autore di rebus non vorrebbe avere la stessa maestria e fertilità di tratto che Leonardo applicava ad hoc?

(A tale riguardo vi è una circostanza che ancor più ci lega, e in modo familiare, al Genio vinciano: l’esistenza, fra le sue “chiavi” figurative, di “oggetti” di cui il rebus tuttora si avvale. Per ciò, rivederli là, sui fogli dei suoi “codici”, ossia nel loro ambito originario, sembra quasi di ritrovare una “consanguineità” che un poco attenua e in qualche modo legalizza l’eccessivo uso, in un recente passato, di api orse orsi more noci ecc. Comunque, legami atavici di tutto rispetto ma da lasciare riposare nel loro limbo o, tutt’al più, da ripescare nei casi in cui ve ne sia una degna ragione).

C’è, quindi, in Leonardo, in forza della coincidenza tra autore e realizzatore iconografico, il segno di una fatalità emblematica, cioè la condizione migliore dell’attività rebussistica. Proprio per noi cui, di fronte all’avanzare continuo della tecnica rebussistica, fa remora l’impossibilità (finora) di un’autosufficienza in grado di concretare il supporto figurativo nel modo più rispondente alle determinazioni della doppia lettura.
Anche questo, ripetiamo, fa sì che Egli si proponga quale genio epònimo del rebus e, per ciò stesso, di questa Rivista, la cui intestazione appunto nel Suo nome s’identifica.

E se di Lui non è vacuo ricordare che tanto nomini nullum par elogium, è altresì doveroso riflettere che l’aver preso a insegna un Nome di fama universale è un forte “azzardo”, un impegno di precisione e di buon gusto non comuni per noi, che con spericolata arditezza ci asseriamo suoi “nipotini”. Cui Egli – si può immaginare – direbbe: ragazzi, non chiedo che voi dobbiate ideare opere in tutto meritevoli di me, ché sarebbe fuor di luogo pretenderle, ma almeno rebus che non mi facciano sfigurare, sì!

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