4. IDENTITÀ ETIMOLOGICA. È evidente
che quello della mancanza di identità etimologica tra la chiave
e la parola risultante nella soluzione è tra i requisiti fondamentali
(se non l'unico realmente imprescindibile) del rebus.
Quando anche, infetti, una chiave fosse banale;
una frase appena passabile o decisamente brutta; un disegno fosse
primitivo, o confuso, o pletorico; un ragionamento forzato, o ai
limiti del ridicolo; una cesura del tutto inesistente, il rebus avrebbe
comunque diritto di vivere (sarebbe magari un problema del suo autore
quello di affrontare il dileggio e lo scherno della comunità rebussistica
che, comunque, non potrebbe impedire la venuta alla luce del mostro)E.
Ma se c'è un'identità etimologica netta, il rebus non
esiste. Non è un rebus brutto, semplicemente non è un
rebus, così come il cavallo non è un pesce e un tavolo
non è una bottiglia.
L'unica cosa essenziale nel rebus, l'unica,
cioè, su cui non è lecito discutere è infatti
l'inammissibilità di suggerimenti o di "rimandi" etimologici
evidenti tra la chiave e !a frase risolutiva. Se cosi non fosse,
verrebbe meno il requisito primo di ogni gioco enigmistico: l'indovinare
qualcosa attraverso un sia pur elementare ragionamento.
Tuttavia, anche una posizione così intransigente
in linea di principio non può non stemperarsi in presenza
di situazioni particolari, che però sono più frequenti
di quanto sarebbe auspicabile.
Come infatti gli uomini sono tutti fratelli
in Adamo, così le parole sono quasi tutte... cugine nel sanscrito
o in quegli inarticolati fonemi gutturali dei nostri antichi progenitori.
Vattelappesca se "casa", "cadavere", "camaleonte" o "caricatura" derivano
tutte da qualche "ka" cui nei secoli si sono aggiunte,
perse, ritrovate o rigenerate misteriose de sinenze che hanno contribuito
a dare i significati più disparati a parole tutte impostate
su quel monosillabo primigenio.
Ora, il rebussista è esentato da ricerche
di questo tipo e se qualche devoto discepolo del Devoto gli obiettasse
una remota parentela tra "caciocavallo" e "carabiniere",
egli non dovrà tenerne gran conto.
Sennonché, tra un'affinità come c'è fra "rispettato" e "spettatore" (un'identità etimologica
da pelo nell'uovo) e un banale "Roma" / "romano" di intuitiva
evidenza, si estende una sterminata terra di nessuno dove una volta o l'altra
occorrerà pur mettere ordine cominciando, per esempio, con lo stabilire
che un'identità etimologica netta e non dissimulabile come "nato" / "innato" non
può essere tollerata mai, neppure in presenza di
un capolavoro (che tale, comunque, non potrebbe mai essere con quel po' po'
di difetto). Accettare un'identità etimologica solare sarebbe come accettare
una frase senza né capo né coda, con la differenza che l'autore
della frase orrenda può sempre salvarsi, dicendo di aver voluto fare
un rebus "folle".
Identità etimologica evidente, e quindi
intollerabile esiste – e non c’è bisogno di essere
filologi per rilevarlo - in tutti i casi di parentela "intuitiva" di
verbi (es.: "portare" e i vari trasportare, importare esportare,
comportare ecc.; "mettere" e i vari emettere, rimettere,
smettere... ).
Nei casi in cui la parentela risulti evidente
solo a livello morfologico, ma meno a livello di significato (es.:
mettere / commettere un peccato) il rebussista coscienzioso dovrebbe
almeno farsi venire la curiosità di consultare il vocabolario
o, in mancanza, un amico "istruito", per vedere se l'identità etimologica
c'è o non c'è; perché la lontananza di significato
tra i due termini "parenti" non assolve dal peccato di
identità etimologica.
Molti di quelli che vengono considerati dei bisensi
puri sono in realtà la stessa parola che è venuta assumendo
col tempo due significati diversi ma, all'origine, sempre della stessa
parola si tratta ( es.: "avanzare" nel senso di essere
creditore di qualcosa e in quello del cibo che avanza). Consultando
il vocabolario si vedrà che i due significati sono compresi
sotto un unico lemma e che si tratta, semplicemente, di due accezioni
diverse di un unico termine. A questo punto si può fissare
un punto fermo: l’inammissibilità di un bisenso che
i dizionari configurino, invece, come doppia accezione di un unico
termine.
A maggior ragione, ovviamente, non saranno ammissibili
situazioni in cui la parola della frase è la stessa, (o parente
stretta) della chiave, solo che è usata in senso traslato
o metaforico (es.: fari, conti collare, alta = far i conti colla
realtà, in cui i conti disegnati sono i conti della spesa).
E' evidente che qui non si può parlare neanche di doppia accezione,
ma proprio di identità di termine, che in frase è usato
semplicemente in senso metaforico.
Ora, se questo procedimento fosse lecito, e
certamente non lo è, avremmo la "crittografizzazione" del
rebus; si potrebbe, cioè, giustificare l'enormità di
considerare rebus un'immagine del Colosseo che si risolvesse con “costruzione
del periodo latino", in cui nessuna delle quattro parole è un
vero e proprio bisenso.
Naturalmente non si vuole esaurire in questa sede (né si
potrebbe) una questione che più "vexata" non potrebbe
essere. Si è cercato solo di fornire un primo contributo alla
individuazione di un criterio che, per quanto empirico, possa comunque
fornire concreti punti di riferimento, in un settore ancora piuttosto
fluttuante.
Il Comitato supervisore dell’A.R.I.
(da: "La voce dell'A. R. I. - aprile 1986, maggio 1987, febbraio 1988
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